martedì 20 maggio 2014

NEL SETTIMO CREÒ IL MARACANÃ



DI COSA PARLA


È la prima storia del calcio del Brasile mai pubblicata in Italia, e la seconda nell’Unione Europea.
Il racconto parte da prima che calcio e Brasile esistessero, cercando di capire come è sorto questo gioco, per approdare alla nascita del Paese e ai primi calci tirati a una bola da quelle parti.

E prosegue con i tornei di ogni singolo Stato, a partire da quelli di São Paulo e Rio de Janeiro; i campioni che hanno scritto la storia di questo sport, compresi quelli la cui fama non è mai arrivata in Europa; le vittorie nella Copa América (1919 e 1922, poi più niente fino al 1949 e al 1989); l'incredibile finale della Copa do Mundo del 1950; la bellezza travolgente della Futebol Arte, Mané Garrincha, i tre Mondiali vinti con Pelé, João Saldanha; la caduta di fronte a Paolo Rossi al Sarriá; l'evoluzione del gioco della Seleção e i titoli del 1994 e del 2002; i trionfi internazionali di Palmeiras, Santos, Corinthians... l'imminenza dei Mondiali del 2014.

Se il calcio brasiliano è la narrazione principale, sappiamo che esso non vive in un mondo solo suo. Per questo accenniamo brevemente a ciò che succede via via in Brasile nella società, nel mondo della cultura e della musica, gli eventi della politica come quelli della vita quotidiana delle persone. Getúlio Vargas, Caetano Veloso, Oscar Niemeyer, Hélder Câmara, Castelo Branco, Jorge Amado, Juscelino Kubitschek, Clarice Lispector, Chico Mendes, Ivete Sangalo, Dilma... il rinoceronte Cacareco e la capra protettrice del São Paulo (questi vi stenderanno!)...

Siamo addirittura i primi a parlare di qualcosa che non abbiamo trovato in nessuna storia di questo sport: il calcio delle ragazze, che in Brasile sta diventando sempre più importante, entusiasmante, vincente.

Naturalmente, il punto di vista è quello di un europeo, con tutti i privilegi e tutti i limiti che questo comporta. La quasi totalità delle informazioni è di fonte brasiliana e di lingua portoghese: una scelta che è stata fondamentale per evitare distorsioni e pregiudizi, ma anche una montagna di errori presenti in siti (anche autorevoli) inglesi, italiani, spagnoli.
Soprattutto: ci piacerebbe appassionare, informare, commuovere ogni lettore come è successo a noi lungo i due anni di scrittura di questo libro.

L’AUTORE


Luciano Sartirana è nato a Milano il 6 novembre 1957. Cultura classica e filosofica. Ideatore e conduttore di percorsi didattico-formativi in Scrittura creativa, Drammaturgia e Sceneggiatura a Milano e Venezia. Lettore per Giangiacomo Feltrinelli Editore; direttore di collana per Demetra Edizioni. Consulente di produzione radiofonica con RadioRAI (“Caterpillar”, “Radio Bellablù”). Autore di testi, racconti e recensioni per varie testate web. Co-fondatore del sito di riflessione culturale www.rapportodiminoranza.it
Nel 2008 apre le Edizioni del Gattaccio. Ha visto in diretta tv cose che oggi è difficile anche solo immaginare: l’assassinio di John Kennedy, il primo sbarco sulla Luna, Italia-Germania 4-3 di Messico ’70. E - naturalmente - i raggi B balenare alle porte di Tannhäuser.
 

Inutile dire che ogni via, ogni piazza, ogni casa del Brasile erano anch’esse cadute in quel silenzio funebre. Molta gente deambula senza meta, lacrimando senza possibilità di consolazione. Alberi, ristoranti, luoghi pubblici espongono piccoli cartelli scarabocchiati a mano con l’annullamento di ogni festa, danza, cena programmate da tempo per quella sera epocale.
I titoli dei giornali sfiorano l’assurdo: “Mai più!”; “La peggior tragedia della storia del Brasile”; fino a “La nostra Hiroshima”.
Il commentatore sportivo Mário Filho, che tanto si era dato da fare per la costruzione del Maracanã tanto che gli venne dedicato, scrive: “La città ha chiuso le sue finestre e si è immersa nel lutto. È stato come se ciascun brasiliano avesse perso l’essere a lui più caro, e in più l’onore e la dignità. Molti brasiliani hanno già giurato che, da questo 16 luglio, non metteranno mai più piede in uno stadio di calcio…”
Una decina di persone lascia il Maracanã da cadavere, causa infarto.

Altre – si dice parecchie centinaia – si sarebbero suicidate per la sconfitta. La notizia parte dal giornale argentino Clarín e viene ripresa dai media europei. A parte una certa supponenza da Primo mondo e un certo razzismo verso un Paese considerato di Terzo (“Guardate che stupidi, questi brasiliani, suicidarsi per una partita di calcio…!”), risulta  invece abbastanza credibile il togliersi la vita da parte di scommettitori che avevano impegnato tutti i soldi della famiglia.
Non tanto sull’ovvia vittoria della Seleção quanto sullo scarto e sugli autori dei 6-8 gol previsti…

Ary Barroso, musicista autore della celebre “Aquarela do Brasil” e principale radiocronista sportivo del Paese, decide che non commenterà mai più una partita di calcio.

Il presidente della FIFA, Jules Rimet, racconta i minuti poco prima e poco dopo il 90’: “Era prevista ogni cosa… tranne il trionfo dell’Uruguay. Alla fine della partita dovevo consegnare la coppa al capitano del vincitore, ovviamente il Brasile. Una vistosa guardia d’onore si sarebbe dovuta allineare dal tunnel degli spogliatoi fino al centro del campo. A circa un quarto d’ora dal termine inizio a ripassarmi il discorso e mi dirigo dalla tribuna giù verso gli spogliatoi; le squadre stanno pareggiando e quel risultato laurea ancora la squadra di casa.
Ma, mentre scendo gli scalini interni, l’urlo infernale della folla si interrompe di colpo. Quando esco dal tunnel, lo stadio è dominato da un silenzio di desolazione. Non c’è nessuna guardia d’onore, la partita finisce, mi trovo lì da solo con la coppa tra le mani e senza sapere cosa fare. Riesco a individuare Obdulio Varela. Mi avvicino, gli consegno la statua d’oro quasi di nascosto… e gli stringo la mano senza poter dire una sola parola di felicitazioni per la sua squadra…”   

Interessante il racconto del centravanti platense Oscar Omar Míguez: Quel giorno era scritto che dovessimo vincere noi, non temevamo né Dio né il  demonio. Se Máspoli avesse giocato da centravanti avrebbe segnato due gol, e se in porta avessi giocato io, avrei parato due rigori…”.

Roque Gastón Máspoli, portiere dell’Uruguay: “Il silenzio dopo il nostro secondo gol è stato qualcosa di terribile…”  

Flávio Costa, tecnico del Brasile: “Sinceramente, mai mi sarei aspettato una cosa simile…”

Obdulio Varela, capitano dell’Uruguay: “È stato un caso. Abbiamo vinto perché abbiamo vinto, niente di più. Questo Brasile è una macchina, avrebbe potuto tranquillamente sommergerci di gol. Mettetevelo nella testa: giocassimo altre cento volte quella partita, non ne vinceremmo mai più una… cose così non capitano due volte…”
Il premio in denaro che Obdulio ricevette per quella vittoria lo utilizzò per comprarsi una Ford usata del 1931, che gli venne rubata dopo una settimana.
Alla partenza dell’aereo per il ritorno a Montevideo, Varela pretese che un dirigente della Federazione e la sua famiglia scendesse a terra e tornasse a casa per i fatti suoi: era uno di quelli che si era augurato di perdere con soli due-tre gol di scarto…
Le stessa sera del trionfo si rifiutò di festeggiare in albergo con la Federazione, e passò la notte a bere birra con alcuni compagni e molti tifosi brasiliani, per consolarli. Sempre a questo proposito: “Non mi è piaciuto vedere 200.000 tifosi tristi. Non mi è piaciuto vedere Rio con la faccia scura e senza carnevale. Ma è la vita: ero campione, ma non provavo nessuna allegria…”

Alcidés Ghiggia, attaccante dell’Uruguay: “Non sapevamo se andarcene in giro, per paura. Uscimmo, in gruppetti di quattro o cinque. Ma il pubblico ci riconosceva e si felicitava… un pubblico meraviglioso e molto cortese…!”

Ademir Menezes, attaccante del Brasile: “Nessuno di noi aveva mai pensato che l’Uruguay avrebbe potuto batterci. Ci era parso chiaramente si accontentassero del secondo posto…”.

José Lins do Rego, giornalista brasiliano: “Ho visto un popolo a testa bassa, con gli occhi pieni di lacrime e senza più parole, lasciare lo stadio come ci fosse stata la sepoltura di un genitore molto amato. Ho visto un popolo sconfitto. Più che sconfitto: senza più una speranza. Questo mi ha fatto molto male…”

Carlos Heitor Cony, giornalista e scrittore brasiliano: “Il giorno in cui vidi il Brasile perdere la Coppa del Mondo al Maracanã ho smesso di credere in Dio…”.

Nelson Rodrigues, scrittore brasiliano: “Noi brasiliani soffriamo del complesso del cane randagio… un senso volontario di inferiorità rispetto al resto del mondo…”.

Obdulio Varela, di nuovo: “Se non avessimo rallentato, spezzato il loro gioco, quella macchina per giocare al calcio ci avrebbe demolito senza fatica. Li avessimo serviti del loro piatto preferito, un gioco veloce, queste tigri ci avrebbero divorato. Sono andato anche a perdere molto tempo con l’arbitro dopo il loro gol, pretendendo un interprete perché non sapevo l’inglese, la sua lingua. I giocatori brasiliani erano nervosi e mi insultavano… questo loro atteggiamento mi ha aperto gli occhi, mi ha fatto capire che ci temevano…”. 

Ancora Flávio Costa: “Il destino ci rise in faccia. Tutti, tifosi, stampa e addetti ai lavori, pensavano che la Coppa fosse già nostra, e fu questo a causare tutto…”.

Naturalmente, nei giorni successivi, scatta la ricerca del colpevole di un simile trauma.
Il primo è Flávio Costa: oltre che di avere allenato e disposto male la squadra in campo (soprattutto per l’impotente marcatura di Bigode sulla scolopendra Ghiggia), è accusato di avere fatto assistere i giocatori a una messa cantata, la mattina stessa della partita, due ore in piedi per tutti. Costa riceve anche parecchie minacce, e per alcuni mesi si rifugia all’estero.
Il secondo la Federazione, che la sera prima portò in giro i giocatori ad assistere a tutte le feste che la gente improvvisava per strada in attesa della festa grande.
Poi c’è buona parte dei giocatori, molte dei quali chiudono lì la loro carriera nella Seleção. Nei Mondiali del 1954, solo Baltazar e Bauer vengono convocati. La stessa Seleção non disputa incontri né ufficiali né amichevoli fino all’aprile del 1952.   
Ma la condanna senza appello, la rabbia crudele, l’ostracismo peggiore si abbatte sul portiere Moacyr Barbosa, grande estremo difensore del Vasco da Gama Espresso della Vittoria e della nazionale. Una vicenda triste, odiosa per un atleta tra i migliori della sua generazione. Secondo tutti (tutti, fuori dal campo, sanno cosa sarebbe stato meglio fare…), il secondo gol nemico sarebbe stato da evitare, bastava non buttarsi subito al centro.
Dal gol di Ghiggia in poi, la sua vita si tramuta in un inferno. E il fatto di essere di colore sicuramente non lo aiuta. Al suo ingresso in un qualsiasi bar del Brasile, tutti lo guardano come avessero davanti un fantasma. Riceve minacce per mesi, deve cambiare spesso casa. Per decenni il suo nome suona sinonimo di disastro e malasorte.
Lui stesso ricordava momenti particolarmente tristi: “Una sera negli anni ’80, in un mercato. Una signora mi indica a voce alta al figlioletto di dieci anni… guarda, bambino mio… quello è l’uomo che ha fatto piangere tutto il Brasile…”
Prima dei Mondiali del 1994 si reca nel ritiro della Seleção per fare gli auguri ai giocatori. Un funzionario non lo fa neanche entrare…
In una delle sue ultime interviste, Barbosa dichiara: “In Brasile, la pena più pesante per un delitto è di trent’anni di carcere. Sono quasi cinquant’anni che io pago e sono in una specie di prigione pubblica per un delitto che non ho commesso. La gente dice ancora che il colpevole sono io… ma eravamo in undici…”.

Il 17 luglio 1950
Alle sette della mattina dopo quella finale, gli addetti alle pulizie del Maracanã trovano un ragazzo di sedici anni rannicchiato fra gli spalti, abbracciato ancora piangente alla bandiera verde-oro. 


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